MALI 22 gennaio 2013

Da Altrenotizie

Mali, la nuova crociata
di Michele Paris

Mentre il bilancio delle vittime del blitz condotto nel fine settimana dalle forze di sicurezza algerine in un impianto di estrazione di gas naturale al confine con la Libia continua a salire, le collegate operazioni militari della Francia nel vicino Mali indicano una possibile escalation del conflitto nel paese dell’Africa occidentale, con possibili gravi ripercussioni per tutta la regione del Sahel e non solo.
Come è noto, l’assalto finale delle forze speciali di Algeri ha avuto luogo nella giornata di sabato e si è risolto in un vero e proprio bagno di sangue. I morti tra gli ostaggi e gli affiliati ad una brigata integralista legata ad Al-Qaeda che aveva preso possesso dell’installazione ammontano a svariate decine, anche se, per stessa ammissione del governo locale, numerose vittime devono ancora essere identificate.
L’azione dei reparti speciali algerini è stata decisa senza consultare i paesi da cui provenivano molti degli operatori della struttura estrattiva di In Amenas ed è avvenuta dopo il rifiuto da parte delle autorità governative di trattare con i leader dei jihadisti per la liberazione degli ostaggi. In un video postato su un sito web nord-africano, infatti, il leader del gruppo che ha rivendicato l’operazione, Mokhtar Belmokhtar, si era detto pronto a negoziare con l’Occidente e con il governo algerino se fossero stati interrotti i bombardamenti francesi in Mali.
Le dichiarazioni del veterano guerrigliero islamista, ben noto ai servizi segreti algerini e francesi ma anche americani, dal momento che aveva mosso i suoi primi passi nel movimento jihadista finanziato da Washington in Afghanistan negli anni Ottanta, confermano dunque i timori di quanti prevedevano serie conseguenze del nuovo fronte di guerra aperto da Parigi una decina di giorni fa.
In Mali, dove la Francia ha inviato finora più di duemila uomini come truppe di terra, gli sviluppi più recenti delle operazioni belliche indicano ripetuti bombardamenti contro le roccaforti degli estremisti islamici nel nord del paese, in particolare nei pressi di Timbuktu. Nella località del Mali centrale, Diabaly, a poco più di 300 km dalla capitale, Bamako, le forze francesi e l’esercito regolare avrebbero invece ripreso il controllo della situazione, con i “ribelli” costretti almeno momentaneamente alla fuga.


Alla luce della strage nella struttura estrattiva in Algeria e di possibili attentati anche in territorio francese, tuttavia, il governo socialista di François Hollande continua ad affermare che l’intervento in Mali sarà di breve durata e che dovranno essere i paesi africani a farsi carico della difficile stabilizzazione del paese, o meglio a dover agire come strumento delle mire neo-colonialiste di Parigi.
A questo scopo, in un summit organizzato nel fine settimana ad Abidjan, in Costa d’Avorio, il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, ha sollecitato la formazione di una forza multinazionale di intervento in Mali, già autorizzata da una recente risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Quest’ultima decisione prevedeva in realtà tempi di intervento molto più lunghi ma l’avanzata dei “ribelli” islamici verso il sud del paese ha spinto la Francia a muoversi anticipatamente. In ogni caso, già domenica sarebbero giunti a Bamako almeno 400 soldati provenienti da Nigeria, Togo, Benin e Ciad, un anticipo di un totale di oltre tremila uomini complessivamente promessi assieme ad altri paesi africani.
L’intervento francese in Mali, come ampiamente previsto, è subito diventato un potente strumento in mano ai gruppi integralisti per reclutare nuovi adepti della jihad globale, trasformando con ogni probabilità una minaccia limitata al paese dell’Africa occidentale o, tutt’al più, a quelli confinanti, in un pericolo anche per l’Occidente.
Questa nuova realtà ha già scatenato una serie di commenti e analisi allarmate circa gli scenari che si preannunciano sul fronte della “guerra al terrore”, accompagnati da appelli a nuove inevitabili iniziative di più ampio respiro e di lunga durata. Tra i leader occidentali che si sono pronunciati in questo senso nei giorni scorsi c’è ad esempio il primo ministro britannico, David Cameron, il quale ha definito le attività di gruppi come Al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM) “una minaccia globale che richiederà una risposta globale” da attuarsi “nei prossimi anni o addirittura decenni”.
In precedenza, il Segretario alla Difesa americano, Leon Panetta, aveva anch’egli ipotizzato un maggiore impegno in Africa da parte del suo paese, dal momento che Washington “ha preso l’impegno di combattere Al-Qaeda ovunque”. Il capo del Pentagono, che lascerà a breve il proprio incarico al relativamente più moderato ex senatore repubblicano Chuck Hagel, ha poi ricordato minacciosamente che gli Stati Uniti hanno già contrastato i “terroristi” in “Afghanistan, in Pakistan, in Somalia” e che perciò non avranno alcuno scrupolo ad impegnarsi anche in Nord Africa.
La nuova crociata guidata dalla Francia e dagli USA fa parte dunque di una strategia che, in vista del relativo disimpegno in Medio Oriente e in Asia centrale, nei prossimi anni avrà al centro dell’attenzione il continente africano, obiettivo ambito dalle potenze internazionali per le proprie ingenti risorse naturali in buona parte ancora da esplorare e terreno nel quale è già in corso un’accesa competizione con la penetrazione cinese.
L’implementazione di questo disegno ha fatto segnare una netta accelerazione proprio con l’intervento francese in Mali, e prima ancora con l’aggressione della NATO contro la Libia per rimuovere il regime di Gheddafi. Come hanno fatto osservare alcuni analisti, l’inaugurazione di un fronte africano della “guerra al terrore” è stato teorizzato da tempo negli ambienti “neo-con” d’oltreoceano e la militarizzazione del continente per controllarne le riserve energetiche di fronte alla minaccia cinese sarebbe appunto il compito principale, anche se non ufficiale, assegnato al Comando Africano del Pentagono (AFRICOM), creato dall’amministrazione Bush nel 2008.


La minaccia estremista al governo del Mali, esplosa peraltro in seguito alla fine di Gheddafi, il cui governo svolgeva una funzione stabilizzatrice delle forze centrifughe che caratterizzano la ex colonia francese, è stata dunque sfruttata ancora una volta per promuovere gli obiettivi imperialistici degli Stati Uniti e dei loro alleati in Occidente, dietro la consueta e ormai ben consolidata retorica della necessità di contrastare il terrorismo internazionale.
Le forze dell’integralismo islamico, d’altra parte, sono da tempo pedine nelle mani dei governi occidentali, i quali le usano alternativamente e a seconda delle necessità, come alleati più o meno ufficiali per combattere regimi sgraditi, come è accaduto in Libia e come sta avvenendo in Siria, oppure come casus belli per giustificare interventi diretti in aree del pianeta strategicamente fondamentali, come appunto in Mali.
La responsabilità della creazione di queste cellule estremiste è da attribuire all’Occidente, a cominciare dagli Stati Uniti e ai regimi alle loro dipendenze in Africa e in Medio Oriente. Se l’origine di Al-Qaeda, finanziata e armata da Washington e dalle monarchie assolute del Golfo Persico, è da ricercare nel conflitto in Afghanistan per mettere fine all’occupazione sovietica, in questi ultimi anni le crisi create in Libia e in Siria hanno consentito alla galassia jihadista di prosperare ed ampliare i propri obiettivi.
Per quanto riguarda la vicenda del Mali, non solo Al-Qaeda nel Maghreb Islamico - il gruppo islamista che controlla il nord del paese assieme ad Ansar Dine e al Movimento per l’Unicità e la Jihad in Africa Occidentale (MOJWA) - ha beneficiato delle armi fornite dalla NATO ai ribelli libici di matrice islamista (LIFG) in prima linea contro Gheddafi e con i quali sono alleati da anni, ma, secondo alcuni, sarebbe essa stessa una creatura dei servizi segreti dell’Algeria, il cui governo ha ora concesso il proprio spazio aereo ai velivoli francesi che bombardano le postazioni di AQIM nel vicino meridionale.
A sostenere questa tesi, in particolare, è Jeremy Keenan, autorevole esperto di questioni nord-africane e docente presso la London University. In numerose analisi su varie testate internazionali, in questi anni Keenan ha sottolineato come i guerriglieri islamisti che hanno preso possesso dallo scorso anno del Mali settentrionale abbiano goduto dell’assistenza del cosiddetto “Département du Renseignement et de la Sécurité” (DRS) di Algeri, tra l’altro accusato a più riprese di fare regolarmente ricorso a metodi di tortura e a detenzioni illegali.
Per Keenan, il DRS utilizzerebbe questi gruppi estremisti per convincere l’Occidente a continuare a fare affidamento sul regime algerino nella “guerra al terrore” in Nordafrica, mentre in collaborazione con le agenzie di intelligence occidentali avrebbe più volte organizzato operazioni terroristiche fabbricate ad arte per giustificare l’espansione del fronte globale contro il terrorismo nella regione sahariana e del Sahel.
La sempre maggiore presenza militare occidentale in Africa, come già anticipato, è infine anche e soprattutto una risposta ai successi fatti segnare dalla Cina in questo continente, dove Pechino ha costruito partnership che hanno fatto lievitare negli ultimi anni gli scambi commerciali bilaterali. In Mali, ad esempio, le aziende cinesi sono impegnate in vari settori, dalle costruzioni all’industria estrattiva, dall’agricoltura all’industria alimentare, contribuendo allo sviluppo minimo di cui ha beneficiato questo poverissimo paese nel recente passato.


Alcuni progetti di cooperazione con il governo del Mali vennero siglati nel febbraio 2009 durante una visita a Bamako dell’allora presidente cinese, Hu Jintao, invitato personalmente dal suo omologo Amadou Toumani Touré, la cui deposizione nel marzo dello scorso anno ha dato inizio alla crisi in cui è precipitato il paese africano. A rimuovere Touré a poche settimane dalla fine del suo mandato presidenziale fu un colpo di stato militare guidato da Amadou Sanogo, un capitano ribelle dell’esercito debitamente addestrato negli Stati Uniti d’America.

 

 

 Nouakchott
AREVA
Les vraies raisons qu'aucun politique français n'aborde sur l'intervention militaire au Mali demeurent un secret d'état: protéger les mines exploitées par Areva au Niger(pays situé au centre est du Mali) et éviter que les groupes terroristes maliens ne continuent leur avancée et soient tentés par occuper une partie du Niger, notamment les zones minières exploitées par Areva. Pourquoi?
Les économistes branchés sur les marchés boursiers s'attendent à une flambée des prix de l'uranium dès 2013 (2013-2015= Peak uranium). Si les cours actuels annoncent 27,07 dollars la Pound Sterling pour l'uranium, cours de fin décembre, ils risquent selon les observateurs d'atteindre 35 ou 40 dollars d'ici septembre 2013 si les terroristes maliens arriveraient à pénétrer au Niger,d'où l'urgence pour l'état français de couper cours à l'avancée des djihadistes renforcés après la guerre en Libye. Il faut rappeler qu'Areva est le 2ème producteur mondial d'uranium.
Quant à cet article publié par le quotidien Le Monde, il ne peut qu'être insultant et humiliant envers le Niger. Alors que les bénéfices d'Areva se chiffrent en milliards de dollars, les pays où sont implantées les mines ne récoltent que des miettes. 35 millions d'euros en 3 ans en guise de compensation pour l'exploitation de la future plus grande mine d'uranium d'Afrique. Révoltant.
Dire que la France est intervenue pour aider les populations maliennes est fantaisiste. Les dessous cachés de ce dossier resteront confidentiels avec mention "top secret".